Primo incontro e oltre

 

Tutti i telai sono pronti sui tavoli, con i loro orditi coloratissimi (avevamo scelto di proposito tinte accese, pensando di portare allegria e luce), le lane disposte in bell’ordine al centro. L’intenzione è di fare una breve nostra presentazione e di spiegare quel che avemmo fatto negli incontri. Ma l’entrata irruenta delle sette donne che si sono iscritte al laboratorio scompiglia tutti i nostri piani: tutte, senza neppure degnarci di uno sguardo né tantomeno di un saluto, si precipitano verso i telai e si mettono chi sull’attenti davanti a quello scelto, chi già seduta al tavolo e in un vociare esagitato chiedono “Come si fa? Come funziona questa cosa qui? Questi colori non mi piacciono, si può cambiare? Facciamo cambio?”. Tentiamo un’introduzione ma la loro smania di provare subito come funziona, il loro disinteresse verso di noi (siamo all’inizio di questo percorso solo due strumenti anche noi, neppure ascoltano il nostro nome) ci porta a metterle subito all’opera. Vano anche illustrare a tutte quante insieme come funziona il telaio, ciascuna reclama per sé una spiegazione individuale, vuole sapere subito cosa fare, che cosa concretamente ne uscirà fuori. E così il primo incontro è un accorrere frenetico da una all’altra, cercando invano di stabilire un contatto, di farci guardare in volto.

 

Ma con il procedere dei nostri incontri settimanali, gli animi si distendono, la paura di non essere all’altezza passa e ci viene ogni volta dichiarata con quanta impazienza si è aspettato il momento di tornare a tessere insieme. Anche le più scontrose, hanno cominciato a salutarci cordialmente e a baciarci nel momento del commiato. È restata più a lungo la difficoltà a farci chiamare per nome (“Maestra!”, come a scuola), forse perché il divieto di chiamare per nome le guardie estende a tutti quelli che vengono da fuori questa tenuta a distanza e nonostante la fiducia e la simpatia nei nostri confronti fosse manifesta, sono state rarissime le domande, anche solo per sapere da dove venissimo, come fra la loro comunità di recluse e noi di fuori ci fosse non solo il muro reale del carcere ma anche il muro emotivo di difesa dalla nostra vita libera, “normale”.

 

 

I colori

 

I corsi che teniamo da noi in Laboratorio seguono uno schema, un procedimento ordinato di colori e di tipi di intreccio: va subito all’aria anche questo. “Io odio il giallo”, esclama perentoria Giorgia che ha davanti a sé un ordito con il giallo, e si rifiuta categoricamente di tessere con quel colore.

“Che colore ti piace?”, chiediamo. “Il nero, a me piace solo il nero”. Beh, fra tutti i colori che avevamo portato (molti!), non avevamo incluso il nero. Promettiamo a Giorgia di portarlo la prossima volta e contrattiamo con lei a fatica un altro colore. La ribellione di Giorgia contagia anche le altre, nessuna vuole seguire il nostro “percorso didattico” ma ciascuna vuole fare a modo suo e scegliere il colore che preferisce, non importa qualche effetto ottiene. Capiamo subito che è giusto così. Porteremo il nero e altri colori richiesti ma Giorgia, il nero, non lo userà e, deposta quella sua sprezzante presenza, come a dire “Io sono qua solo perché tutto è meglio che restare in cella” (infatti lei lavorava anche nella biblioteca del carcere, dichiarando di amare i libri Noir) e la sua ostilità verso i colori chiari, tesserà poi sempre con grossi fili fucsia e celesti (ma la soddisfazione di usare il giallo, no, quella non ce l’ha data). Anche Antonia ignorava i nostri suggerimenti di colori, sembrava proprio non sentirli, ma, nonostante il suo rude atteggiamento da “capetta” sicura di sé, non li sceglieva lei bensì chiedeva sempre a una o all’altra delle sue compagne, a seconda delle volte, di decidere al suo posto, e tesseva quasi deliberatamente senza alcuna cura, le trame tutte storte, diagonali. Ma anche lei – tornerà inaspettatamente anche al secondo ciclo di incontri – deporrà pian piano quella sua indifferenza per il risultato, verrà incontro ai nostri sforzi di “raddrizzare” il suo lavoro fra un incontro e l’altro e metterà cura nel tessere dritte le sue trame. E visibilmente sarà felice – a quel suo modo da guappo – dell’apprezzamento che noi e le sue compagne daranno della sua sciarpa.

Anche il coraggio di sperimentare nuovi intrecci è arrivato lentamente, ma è arrivato. Per paura di cambiare, di non essere capaci, forse, di imparare una cosa nuova. Ma poi di fronte a un riuscito nuovo effetto di colore, con soddisfazione mostrato alle compagne (che sono sempre state, tutte quante, molto prodighe di complimenti reciproci), anche altre si lanciavano a seguirne l’esempio.

 

 

Il dono

 

Tutte quante, senza eccezione, in entrambi i cicli di incontri, dichiarano di voler tessere, chi una sciarpa, chi una borsa, chi una copertina, non per sé ma per farne dono alla fidanzata, al marito o compagno, alla figlia o al figlio, alla nipotina. Sorprendente per noi, abituate nei nostri corsi all’orgoglio di tenere per sé quella prima creazione tessuta a telaio. Questa voglia di donare, di stupire col proprio lavoro una persona cara che è “fuori”, di pensare ai colori che sarebbero piaciuti al destinatario del dono, e di pregustare la sorpresa che avrebbero provocato è stato un filo affettivo tenace che le ha portate anche a tessere racconti della vita di prima, della vita fuori, a esprimere a volte la tristezza e la rabbia per la difficoltà di incontrare i parenti. Qualche raro pianto, consolato subito con grande affetto dalle compagne, molte battute scherzose, non pochi battibecchi e allusioni alla loro comune vita di cella di cui noi abbiamo potuto constatare solo l’intensa attività di parrucchiere ed estetiste: era diversa ogni volta la loro acconciatura, il taglio e il colore dei capelli!

Il desiderio di fare vedere di cosa erano state capaci, portava anche ad avere una grande fretta di finire quanto prima il lavoro. In entrambi i cicli è bastato che una finisse per scatenare l’ansia: e io quando finisco? 

 

E poi per molte il dispiacere di non potersi portare in cella quel che avevano fatto (le sciarpe non erano concesse ed erano lasciate in deposito, ma una borsa sì, così che in tutta fretta per una ragazza siamo riuscite a confezionarne una) e che il ciclo di incontri fosse terminato, che non fosse poi possibile continuare anche da sole a tessere, a portare avanti qualcosa che avevano imparato a fare.

 

L’ultimo giorno del corso, l’ultima a lasciare lo stanzone dove si lavorava, è stata Marisol, una delle più entusiaste – ha seguito i due corsi - e delle più desiderose di gratificazione. Aveva a tutti i costi voluto fare qualcosa per la nipotina che le era appena nata. Sognava una copertina da culla ma, per le misure ridotte del telaio, le abbiamo detto, con suo sommo dispiacere, che non sarebbe riuscita molto giusta. Alla fine abbiamo escogitato un sacco-nanna e l’abbiamo convinta che non sarebbe stato meno bello. Così, già la guardia eretta sulla soglia a esortarci allo sgombero, lo abbiamo cucito in tutta fretta e con quel coloratissimo fagotto fra le braccia, che ha strappato un sorriso di apprezzamento perfino alla guardia, Marisol, raggiante di gioia, la mano sventolante in un ultimo saluto, si è avviata trionfalmente verso la porta – quello sì, lo poteva portare in cella.

Nei massicci montuosi dell'Africa settentrionale, ogni casa ha il suo telaio rudimentale: due travi di legno sorrette da due aste verticali.

La trave superiore è chiamata la trave del cielo, mentre quella inferiore rappresenta la terra. Queste quattro travicelle simboleggiano l'universo.

Corsi e incontri 2024 

 

Aprile

 

Arte terapia tessile arborea. 3. Radici e rami

domenica 14

 

Tessitura a pettine liccio

ven 19 - sab 20 - dom 21

Completo

 

Maggio

 

Tintura naturale 

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Tessitura di tappeti

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